I riti un elemento irrinunciabile

I riti: segno di elementi irrinunciabili della nostra umanità

 I riti accompagnano l’umanità dagli albori della sua apparizione sulla Terra. Fanno così parte della nostra vita quotidiana (sia religiosa sia laica) quasi da non accorgerci più della loro esistenza. Questo almeno finché non vengono a mancare, come è accaduto durante la pandemia da Covid-19.

Che cosa è successo e come è cambiato il nostro modo di celebrare un rito?

Per un periodo ai cattolici, per esempio, è stato impedito il rito della messa in presenza (e con esso ogni cerimonia, dal battesimo al funerale al matrimonio, il Natale, la Pasqua) mentre, per parlare dei riti laici, ci sono state sottratte tutte quelle grandi manifestazioni che costituiscono i riti d’oggi. Penso ai concerti dei giovani o a tutte le manifestazioni sportive, o al diploma di laurea.

Siamo anche stati privati dei nostri riti domestici e familiari, come i pranzi domenicali di alcune famiglie che costituiscono il momento per radunarsi e rivedere nonni e nipoti, genitori e figli. Annullati e proibiti.

Per un periodo siamo stati confinati in un isolamento mai prima provato, abbiamo assistito allo stravolgimento delle abitudini più consuete, alla perdita dei gesti che ci sembravano scontati e naturali e anche ora la nostra vita non è più come prima. Inoltre il processo di comunicazione digitale di cui già facevamo uso si è accelerato e notevolmente intensificato.

Quali sono le principali conseguenze di tale situazione?

Una di queste è che il dovere rinunciare ai nostri riti ci ha portato a riflettere sul loro valore, in particolare su alcuni loro elementi. Analizziamoli  con attenzione:

  1. la condivisione e il primato della comunità, del ritrovarsi insieme e creare comunità di corpi e di intenti rispetto alla semplice comunicazione senza comunità che caratterizza l’era digitale. Nel rito, infatti, accanto alla narrazione e alla memoria di eventi, è  altrettanto importante stare insieme, ritrovarsi a celebrare un aspetto della vita a cui diamo grande importanza.
  2. Un rapporto delicato non solo con le persone, ma anche con le cose. Come sostiene il filosofo coreano Byung-Chul Han «Nel quadro rituale, le cose non vengono consumante o spese, bensì usate – così possono anche invecchiare»[1].
  3. la riscoperta di un tempo che noi gestiamo e costruiamo senza esserne travolti. Tale gestione del tempo ci permette di porre attenzione ai nostri gesti, di scandire con calma le nostre azioni, di renderle dense di significato. In questo caso il rito dà valore permanente alla realtà, non la lascia fuggire. E questo fanno anche i gesti ripetuti. Kierkegaard, citato dal filosofo coreano Han, contrappone la ripetizione sia alla speranza, sia al ricordo.

La speranza è un vestito nuovo fiammante, tutto liscio e inamidato, ma non lo si è mai provato, per cui non si sa come starà o come cascherà. Il ricordo è un vestito smesso che, per quanto bello, però non va perché non entra più. La ripetizione è un vestito indistruttibile che calza giusto e dolcemente, senza stringere né ballare addosso[2].

Noi oggi siamo spesso travolti dal tempo, il tempo non ci basta mai e lo rincorriamo sempre e non abbiamo più tempo per soffermarci, per governare il tempo.

  1. Il primato della corporeità

Dice ancora Han:

I riti sono processi dell’incarnazione, allestimenti corporei. Gli ordini e i valori in vigore in un una comunità vengono fisicamente esperiti e consolidati. Vengono inscritti nel corpo, incorporati, cioè interiorizzati mediante il corpo[3].

  1. Il valore della percezione e dell’azione simbolica. In un rito mettiamo in azione tutti i nostri sensi: la vista, l’olfatto, il gusto, l’udito, il tatto.

La corporeità e tutti gli elementi percettivi sono finalizzati a congiungersi con una realtà che spesso ci supera, per questo diventano simbolo, nel senso di legame con gli altri e con realtà più grandi di noi. Penso in particolare ai riti religiosi, ma non solo. Infatti anche nel rito laico si dà sempre valore a realtà che superano il singolo individuo. Lo stare insieme e il riconoscersi vicendevolmente dà valore permanente a quello che si celebra.

Pensiamo in particolare alle cerimonie funebri.

Jan Assmann[4] sostiene che la commemorazione dei morti è «il paradigma di una memoria che istituisce comunità».

Però di tale commemorazione siamo stati bruscamente e violentemente privati.

Anche di tutti i gesti rituali legati alla malattia e alla morte siamo stati improvvisamente e bruscamente privati.

È mancato l’accompagnamento al morente.

Più di una persona ci ha fatto sentire il dolore provato, unito al senso di colpa, per non avere potuto accompagnare il proprio caro, la sua mano stretta nella propria, come si usa fare alla fine della sua vita.

È mancato il rito di commiato.

“Non so neanche se sia veramente morta mia mamma” ha detto una signora a un colloquio”  “Me l’hanno portata via. Non l’ho più vista, di lei poi mi è stata restituita solo la  bara chiusa”.

“Per un mese dopo la morte di mia madre non ho saputo niente, come era morta dove si trovava. I suoi effetti personali mi sono stati consegnati in un sacchetto nero”.

Così Olga, una partecipante al gruppo scrittura “Scrivere di sé nel tempo del lutto”, ha espresso in una poesia dedicata a un suo amico di Bergamo che ha visto sfilare sotto le finestre di casa sua la lunga fila di camion in cui era stipata anche la bara di suo padre, tutto il suo sgomento per quel “surreale passaggio”.

 

18 marzo 2020

(dedicata a Paolo)

Mimetici

tracciano nella notte

la fila orrenda

come vagoni per Auschwitz

Sfilano

portando macigni

di storie spezzate

di abbracci negati.

Io, Padre,

alla finestra

assisto attonito

al tuo surreale passaggio.

 

La possibilità degli incontri a distanza, dalle messe in streaming ai corsi sulle varie piattaforme sono stati utilissimi.

Se non avessimo potuto usufruirne, l’isolamento sarebbe stato atroce e penoso.

Ci ha cambiato anche questo? Non darò risposte, piuttosto mi limiterò a porre interrogativi che provochino la vostra riflessione.

Da un lato è scoppiata la voglia di ritrovarsi insieme, di uscire, di rivedersi. Ne è segno il boom delle prenotazioni per le vacanze estive.

Ma mi domando, tutto ciò è più un riappropriarsi di una libertà individuale perduta o una vera riscoperta del valore della comunità che viene celebrata dal rito?

Dall’altro abbiamo apprezzato quanto è comodo stare a casa, senza immergersi nel traffico caotico,  ma ci fa bene?

Per esempio alcune persone anziane, ma ancora autosufficienti, preferiscono seguire la messa in tv piuttosto che celebrare insieme il rito. Non solo, ma quanto si perde dei riti secondari che accompagnano quello principale?

Effettivamente abbiamo scoperto che alcuni incontri possono essere più comodi online e forse ci lasciano tempo per altre attività più interessanti, ma il rischio è che crediamo di stare insieme, ma in fondo rimaniamo tanti atomi isolati e chiusi in se stessi.

L’incontro con altri è anche entrare in un’altra dimensione e chiudere con la realtà domestica, con alcune preoccupazioni, per essere completamente immersi in un’altra situazione. Ciò non avviene se non usciamo, se non cambiamo stato.

Non è forse importante scrollarci da un isolamento a cui ci stiamo abituando e che già serpeggiava nella comunicazione digitale? Penso soprattutto ai social.

I post su facebook permettono la condivisione delle nostre sofferenze e delle nostre gioie, ma sono solo messaggi. Come sostiene Davide Sisto nel libro La morte si fa social,[5]  il punto è sempre lo stesso: dentro l’ambiente virtuale di un social network il soggetto, disincarnato, viene trasformato nel messaggio che condivide e veicola con gli altri. Il soggetto si identifica totalmente con il messaggio.

Se ci affidiamo troppo o solo alla comunicazione virtuale rischiamo quello che Umberto Galimberti  chiama la de-realizzazione e la de-socializzazione. Comunichiamo, ma non siamo insieme fisicamente agli altri, non usciamo dal nostro isolamento. Siamo sempre soli. Ci connettiamo, ma non ci relazioniamo.

Senza demonizzare la comunicazione digitale, è importante rimanere vigili e attenti per non farcene travolgere.

Il rito, in quanto comunicazione dove non solo la parola conta, ma il gesto, il canto, il profumo, la presenza, può essere nello stesso tempo una via di salvezza e un monito contro il rischio di diventare solo parole e immagini.

                                                                                                                            Maria Augusta De Conti, équipe Rimanere Insieme

 

[1] Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti, traduzione di Simone Aglan-Buttazzi, ed. Nottetempo, Milano 2021, p.14.

[2] Søren Kierkegaard, La ripetizione, trad. it. Di D. Borso, BUR, Milano 1996, p. 12, in Byung-Chul Han, op. cit., p. 20.

[3] Byung-Chul Han op. cit., p. 22.

[4] Jan Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica  nelle grandi civiltà antiche, trad. it. di F. de Angelis, Einaudi, Torino 1997.

[5]  Davide Sisto, La morte si fa social, Bollati Boringhieri, Torino 2018, p. 99.

 

 

Parliamo insieme di Lasciti Testamentari Solidali.


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